Non ci vuole niente
quel poco che basta
a se stessi.
Ogni grande interno
spoglia e niente
dice.
A me non interessava affatto tenere a mente l’altro; una forza indissociabile dal pensiero mi riempiva. E se si crede che l’estensione del giusto e del bello a campi di memoria indifferenziata debba avere la meglio su questo torrido pianeta nero, di certo si tratta di errore.
Sempre meno e sempre tu
al più che io possa.
Le lamentazioni, quelle grasse
e cucite pance teoriche.
Franzen è uno scrittore rabbioso e saputo e bacchettone, troppo preoccupato di cosa gli altri pensino di lui. E pensa a Bloom e teme Pynchon e ammira il padre ma vuole superarlo. Sta col metro sempre aperto da adolescente; quando scrive di Updike e della sua [di Updike] scrittura regolare come una cacata quotidiana, vado in bagno.
Pe quale motivo la finitezza ci spinge a far piccolo tutto ciò che ci è prossimo, finanche questo mozzicone di sigaretta vicino al mio piede?
Quando leggo teatro mi accade che tutte le voci si mescolino e non importi più chi parla. Parlo io.
È chiuso da un coperchio, che nella parte interna ha uno specchio, in una bara chi dà consigli o pratica poetiche.
Al fondo c’è la gaffe.