Laura Pugno: La mente paesaggio – di Gianluca D’Andrea

[Recensione che è possibile leggere, prima ancora che su Nabanassar, qui e qui]

nel bosco che ti sbava sulla pelle

Si riprenderà tutto l’acqua fino alla prossima glaciazione. Niente di catastrofico, è solo la possibilità aperta da questo libriccino così diverso dall’ondata letteraria e classicista della poesia italiana attuale: mi riferisco a un versante linguistico che mi ostino a definire “lombardo” per impostazione narrativa e sobrietà tematica nonché per scelte lessicali e sintattiche attratte da una semplicità che, a volte, rischia la stucchevolezza. Allo stesso modo La mente paesaggio è distante da qualsiasi sperimentazione risultando piuttosto un libro basilare, originario e, a ben vedere, profetico. Ogni parola è calibrata su misure minerali, i versi non esistono, sono le risultanti di un linguaggio esploso da tempo, isole o villaggi di palafitte nella distesa della pagina; questo stesso galleggiare è il risultato di un vecchio tragitto e la possibilità del nuovo, posteriore ad ogni posteriorità. Il movimento, il cammino appunto, nel nuovo sentiero della storia che, a scanso di equivoci, non si è mai interrotto, nonostante l’uomo. Diceva Thoreau: «Il sole si spegne su qualche terra lontana, dove non è visibile alcuna casa, con tutte le glorie e lo splendore che prodiga alle città, e in maniera mai vista prima» (H. D. Thoreau, Camminare, Mondadori, Milano 2009, p. 59); le ultime parole di La mente paesaggio recitano: «dove sei adesso/ il sole cuoce il pane/ è perfezione// completato il corpo/ e tu lingua puoi perderti/ qui e non/ altrove» (p. 91): è la fine di un percorso che, come nell’immenso pensatore americano, realizza l’esistenza compiuta della lingua e del soggetto e che, sfondate le barriere socio-economiche e perduti i confini, non può che continuare a sorprendersi della ricchezza metamorfica e dello stesso cammino che apre continuamente al mondo.

In un libro di poesie pubblicato nello stesso anno di La mente paesaggio si ripete il medesimo messaggio: le parole, la lingua, sono doni di apertura alla possibilità di trasformazione per quanto possano condurre alla perdizione – che, come abbiamo potuto constatare nel libro di Laura Pugno, ha un effetto ri-creante – o al nascondimento del reale stesso (ma sono implicite funzioni del segno la mistificazione, l’infingimento – solo il riconoscimento dell’inganno apre uno spiraglio alla fede): «Copriremo/ con le parole il vuoto che abbiamo potuto vedere -/ solo disordine oltre le nuvole e i nomi,/ i segni splendidi a nascondere le cose» (G. Mazzoni, I mondi, Donzelli, Roma 2010, vv. 24-27, p. 58). Nonostante i toni e gli stili diversissimi, entrambi i libri ci conducono dentro la nostra storia, la storia di un millennio nato postumo e consapevole di ciò che Ivan Illich aveva prognosticato quasi quarant’anni fa: «Una volta oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell’iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall’educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia. Questo quantum segna il limite dell’ordine sociale» (I. Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 12), ovvero consapevole di essere ad un passo dal disastro socio-economico, soprattutto dopo due tappe significative quali l’11 settembre 2001 e il 16 settembre 2008, data in cui si verificò il fallimento della banca Lehman Brothers, conseguenza dello scoppio della bolla finanziaria negli Stati Uniti nel 2007 e avvento della crisi economica mondiale.

Ritornando a La mente paesaggio e consci di un disastro di là da venire eppure già avvenuto attraverso tutte le informazioni che giungono a ravvisarlo, ecco che le dimensioni di tempo e spazio vanno riformulandosi lontano da ogni determinismo o causalità e, attraverso la consacrazione dei concetti di precarietà e indeterminatezza fisica, appaiono le dimensioni liminari dell’acqua (da habitat originario a rispecchiamento e riconoscimento nella mutevolezza) e del bosco («chi aprirà la porta che dà sul bosco» p. 85, v. 6; «il giardino è all’interno del bosco» p. 86, v. 1; «la porta che dà sul bosco/ non è diversa dalle altre» p. 87, vv. 1-2), casa reale a naturale di esseri che ineluttabilmente conservavano «la chiave/ in una tasca/ cucita nella carne» (p. 87, vv. 4-6) e che, nonostante un cammino di allontanamento durato millenni, custodiscono l’essere dentro il sistema mondo in un attraversamento che è memoria. Difficile da spiegare l’evenienza che tutta la costruzione umana originata dalla concatenazione causa-effetto si stia sbriciolando per divenire uno spazio-tempo assoluto ricchissimo di venature. I microliti richiamati come un’eco nel sistema linguistico della Pugno – e che formano l’architettura rizomatica del libro – intraprendono questo percorso di spaesamento e raccoglimento e si sostanziano come unico nutrimento: «la pianta che cresce sott’acqua/ con foglie carnose/ come salvia -// la pianta perduta/ che cambia/ la tua carne// come grano/ perfetto e splendente/ che cresce sott’acqua» (p. 60). Assistiamo al passaggio verso nuove coordinate che fungeranno presumibilmente da dimora, non assistiamo alla nuova etica dell’abitare in quell’oikos che «non è più la polis (la città) ma l’oikoumene (l’insieme della terra abitata)» (S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi – Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 70) ma siamo a un passo dal ricongiungimento ad esso: «il non dolore/ torna, il non/ conosciuto prima/ del dolore// lingua piccola,/ ma ancora/ viva/ che sei la stessa lingua/ la stessa voce// e dirai il paesaggio/ il corpo non/ dimenticando» (p. 90). Per incominciare a ri-abitare il mondo bisogna attraversare questo stesso percorso di de-nudamento (la poesia lo dice con i suoi strumenti e La mente paesaggio diventa uno dei paradigmi più profondi, perché unico esempio finora in Italia, di una vera spoliazione e decostruzione identitaria), in termini socio-economici «Bisogna diventare degli atei dell’economia, cioè non considerare un’evidenza indiscutibile il fatto che la crescita di qualsiasi cosa in modo illimitato è una buona cosa, e che la produzione di beni materiali è più importante dell’organizzazione politica o della felicità familiare» (S. Latouche, cit., p. 53).

Se è vero che «l’arte rappresenta un fondo storico della coscienza spaziale, e l’autentico artista è un uomo che vede gli uomini e le cose meglio e più esattamente degli altri, più esattamente soprattutto nel senso della realtà storica della propria epoca», come dice Carl Schmitt (C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002, p. 70), allora è ancora un’opera d’arte, in questo caso un’opera di poesia, a risvegliare e illuminare il senso di appartenenza e cura del mondo che due secoli di sviluppo economico tecnocratico hanno allontanato dalla prospettiva umana.

“La nudità” di Stelvio Di Spigno, peQuod, Ancona 2010

L’OMBRA DELLA DIMORA: “La nudità” di Stelvio Di Spigno, peQuod, Ancona 2010

«Il sogno è il mondo all’aurora della sua piena

esplosione, quando esso è ancora l’esistenza

stessa e non è ancora l’universo dell’oggettività»

Michel Foucault

L’assenza di un luogo conosciuto, l’angoscia che nasce quando un viaggio non può concludersi nel ritorno, sono le metafore “reali” che colpiscono chi fa esperienza di creazione linguistica da sempre.

Il paesaggio desolato di una coscienza senza patria, le difficoltà di un “precariato” psicologico in cerca di una nuova sistemazione nel mondo frammentato della postmodernità sono i nuclei tematici della raccolta La nudità del poeta napoletano Stelvio Di Spigno. Il linguaggio si spoglia di ogni retorica e si fa narrazione del cammino senza approdo di un “io” mascherato del mondo, che si sforza di sentirsi integrato nonostante il contatto con esso lo risospinga centripetamente in sé, nel suo desiderio sotterraneo di una dimora “umanamente” accogliente. Per spiegarmi faccio subito riferimento ad alcuni versi: «Per ascoltare le parole che si dicono nel sonno/ dovremo puntare la nostra vecchia barca/ dove la casa si fonde con l’Antartico e minaccia/ che non vuole accettare questo freddo,/ il puro freddo di restare disumani/ dopo che ci si è spento tra le mani/ un sogno enorme e vago di noi stessi, senza esplodere» (Fiore di notte, p. 15, vv. 1-7).

Il tentativo anti-nostalgico, anti-elegiaco potremmo dire, è espresso nella necessità ineluttabile dell’agnizione, ecco perché la metafora del sogno non esploso rappresenta l’unica realtà in un mondo disumanizzato. L’innocenza del finale («Ma se ci sveglieremo, in un giorno frainteso,/ avremo di nuovo i nostri anni/ e come giovani stanchi o vecchi imbambolati/ vivremo per sempre innocenti», ibidem, vv. 12-15) appare come un barlume flebilissimo del risveglio anestetizzato di chi ha, nel frattempo, vissuto nella protezione del benessere.

Si spiega la scelta del verso lungo nella parentela strettissima di questa posizione antilirica con una prosa discorsiva, desiderante il dialogo nonostante la sfiducia nell’interlocutore.

La tematica della “casa” diventa quasi martellante nella poesia Le due di mattina (p. 31, non per caso il testo che apre la sezione Familiari) in cui il crollo della dimensione dell’abitare si preannuncia in funzione, ancora una volta, di una mutazione antropologica che ci costringe all’accettazione del nostro essere banale, qualunque e, per ciò stesso, comune: «Schiarisciti la mente perché se guardi la mia casa/ ci trovi solo uccelli che schivano l’aria dall’interno/ e senza più ragnatele e radio d’anteguerra/ sembra proprio una casa qualunque e indolore» (ibidem, vv. 1-4). L’ammonimento rivolto al lettore pone l’accento sulla sfiducia sostanziale che guida la riflessione in scrittura di Di Spigno, un male esistenziale – di origine novecentesca – che non lascia tregua: «non si sogna e non si dorme per un frastuono/ di finestre sbattute che martellano il solaio» (ibidem, vv. 6-7), e si esplica in un finale che non apre speranze neanche “ai pochi rimasti” che hanno soltanto la coscienza illusoria «…di non pensare/ che crollata una casa anche le altre/ non tarderanno troppo a imitarla» (ibidem, vv. 17-19).

Il senso della fine avvenuta, che attraversa l’intera raccolta, rifrange continuamente la spinta a una soluzione che sia rinascita e la blocca nell’indecisione e nell’ambivalenza, rifluendo nel malessere a cui si è accennato.

La poesia dedicata al padre rappresenta il sintomo del movimento appena descritto: l’avvicinamento alla figura familiare, pur non perdendo il suo connotato di trasmissione generazionale, è dislocato in un ricordo che si articola nei tre momenti – le tre strofe – che, dalla mitologia dell’imperfetto verbale dell’incipit, che appartiene alla comprensione del soggetto (il figlio-poeta), si sposta al presente di un dialogo che, non realizzandosi, si presume nella separazione delle trasformazioni di entrambi; l’ultima strofa, infine, presenta la fantasmizzazione della figura genitoriale, il misconoscimento che la allontana nel passato fino a farla sfumare nella possibilità che la relazione non sia mai stata, ribadendo una lontananza insanabile: «così lontano da casa da non sapere dove/ ci siamo mai visti, conosciuti o rinfacciati,/ se fossimo mai nati e se è vero che eravamo» (Dissolvimento, p. 34, vv. 9-11).

L’impossibilità di un avvicinamento relazionale impregna tutti i componimenti a seguire. In Informale (p. 35) leggiamo: «Perché di voi resti il ricordo e tra tutte le mancanze/ si mantenga un amore invischiato eppure grande/ che ancora esiste e non morirà di voi» (ibidem, vv. 16-18), che i referenti siano i familiari o i lettori in generale non fa differenza, rimane l’atteggiamento di Di Spigno a lavorare sulla scarnificazione del proprio essere nel mondo (La nudità è il titolo della raccolta, teniamolo sempre a mente) e sull’irraggiungibilità del medesimo.

Probabilmente la constatazione di questa irraggiungibilità è l’unica possibilità di ri-scoperta della propria necessità, il percorso di crescita che lascia il soggetto poetico solo con la sua scelta che tenta di farsi definitiva. Così nelle tre poesie che concludono la sezione possiamo individuare, in una consecutività che non lascia scampo, questa tematica espressa nei versi: «Concluderò che stare al mondo è lasciarsi acconsentire/ confiscarti in un luogo che sarà per sempre quello» (Aspettative, p. 36, vv. 20-21); «e cosa significhi il mondo, mentre noi che ci abitiamo,/ non possiamo capirlo e neanche ignorarlo» (Escursione, 1978, p. 38, vv. 14-16); «protetto dal mondo e dalla mondovisione/ senza scale da salire né niente da promettere,/ solo una tavola apparecchiata con povertà e grandezza/ di chi vive senza sapere come né perché/ contento di aver visto la luce un altro giorno/ e che un altro giorno la luce si sia accesa di sera» (Pibe de oro, p. 39, vv. 5-10).

Il mondo appare in filigrana, sotto la luce di una rassegnazione che combatte costantemente con desideri di rivalsa rispetto ad una definitiva accettazione. La sezione Lo specchio di Dite si annuncia sotto il segno di una speranza di conoscenza più perfetta; la citazione da S. Paolo in apertura ci comunica questa aspirazione e, in tal modo, ribadisce quanto sopra esposto. L’ampia confessione, che tutto il libro sembra rappresentare, in questa sezione ottiene i risultati più lampanti. Sempre sotto il segno dell’ambivalenza, allora, sento l’occorrenza di riportare per intero il componimento più indicativo e riuscito della raccolta:

Animazione

La stanchezza di pensare è come il morbido

di questo cuscino, che è anche un cedimento di lenzuola,

un tradimento di se stessi, perché si è troppo calmi

e io questo di certo non lo voglio: la mia giornata

è clonarmi in tutto, sentirmi in chiunque, parlare lingue strane

per fare due più due con chi entra in un bar

e se due più due per me fa sempre cinque, io divento

la madre nel parco, l’uomo che va in barca,

la sera quando scende a scadenza del tempo:

chissà cosa prova la sera quando scende, ma poi

non è vero che scende: cambia colore, toglie la luce,

ma non è altro che noi che la guardiamo.

Non ho nessuna pelle e assomiglio a tutto,

eppure cerco qualcosa che sia io: una pietra o un’idea,

un essere indifeso per essere sicuro che così

lo si ama. Le parole, quelle sane, lasciamole al sudore

di chi un’identità l’ha già trovata, magari tra i bagagli

in un aereo che dia diritto a una vita sola.

Bella la parola identità, ma chi ne ha colto il frutto,

povero figlio di te stesso, se lo tiene per sé:

stanne certo come il sangue dei lupi.

(p. 44).

Quando il dubbio identitario corrisponde a una fuga più che a un percorso ininterrotto, ecco giungere una meta che si spera definitiva: «ma questa casa è così immaginaria/ da non poter dire con che mente svuotata/ esco dall’auto senza più un desiderio/ e mi consegno soltanto a me stesso,/ a una solitudine ignota ma molto più grande» (Meta, p. 47, vv. 10-14).

La fine della fuga fa i conti con la quotidianità e il rimpianto che anticipa il domani ribadisce l’ambivalenza:

Continuità

Ripassando per una strada un tempo amata e conosciuta

con amici come glia altri che in quella stessa strada

davano al mondo una figura ordinata,

un viso concluso sotto un tunnel di ricordi,

vedendo un uomo che ti filtra con lo sguardo

quasi del colore della ringhiera di casa,

puoi non chiederti se il tempo è passato davvero

e il povero cielo vede qualcosa di nuovo,

ma di te puoi pensare che un altro giorno è compiuto

che davvero c’è una gru gialla che sposta materiali

che se la notte è oscura è perché nessuno la guarda

che c’è l’asfalto dove l’auto inciampa sempre.

Ma di certo non sai cosa rimpiangerà domani

questo vivere ancora e per sempre,

e come sei diventato il guardiano di un oceano

in uno spazio perduto e lontano

dove pochi verranno a disturbarti

e chi ti cerca non sarà un amico.

(p.55).

Nella penultima sezione, La vita in lontananza, la dimensione della dimora, la ricerca di essa, si distanzia e prende la figura di un soggetto a cui, nel pieno isolamento, non resta che osservare il mondo nella consapevolezza di non poterne partecipare le manifestazioni più comuni. In questo allontanamento sembra trapelare un’incomprensione del proprio tempo che sfocia in un rifugio nel tempo assoluto del ricordo.

L’altezza monocorde, inoltre – ribadita dalla scelta di una forma per lo più uguale a se stessa, tre, quattro strofe composte da versi lunghi che raccontano sempre il medesimo tema –, si riconosce separata «tra gente che non parla la mia lingua […]» (Invarianza, p. 67, v. 13).

In conclusione è sottolineato definitivamente il distacco: Milano diventa metonimia della società capitalistico-occidentale, i “colleghi” scrittori, i poeti, sono ridotti al niente di cui ognuno è presupposto. Questa “nientificazione” di stampo moralistico, però, non possiede alcuna verve che riconduca ad una fuoriuscita, ad una risposta che tenti di sciogliere i nodi del fare nel nostro mondo annichilito. Se muore la relazione, resta il nichilismo indifferente ad ogni dolore, e la desolazione, riempita di sé, rischia uno sterile solipsismo.

Una poesia del 1830 ci ricorda la nostra precarietà e lo slancio per ciò, che pur essendo caduco, è la nostra unica possibilità:

Mal’aria

Amo questo divino sdegno, questo celato,

questo segreto Male, presente in ogni cosa:

nei fiori, nella fonte diafana come vetro,

negli iridati raggi, fin nel cielo di Roma.

Lo stesso firmamento sgombro di nubi, eccelso,

e parimenti il petto leggero e dolce spira,

lo stesso vento caldo che dondola le cime,

lo stesso odor di rose: e tutto questo è Morte!…

E chi potrebbe mai dirlo, nella natura

forse v’hanno profumi, colori, suoni e voci

che sono annunciatori per noi dell’ora estrema

e fanno men crudele la nostra ultima pena.

Con essi del Destino l’inviato fatale,

i figli della Terra dalla vita evocando,

come di lieve trama si ricopre la faccia

ed a loro nasconde l’orrenda sua venuta!

(Fëdor Tjutčev, Poesie, Adelphi, Milano 2011, trad. di T. Landolfi, p. 33).

Spero vivamente che il sobrio narrare in versi di Di Spigno, ricco di sapienza e umile moderazione, riesca a ritrovare la strada che sente il contatto col mondo, per continuare ad ascoltare una delle voci più vibranti della poesia italiana contemporanea.

Febbraio – Marzo 2012

Gianluca D’andrea

LA VERITA’ DEL NEGATIVO: “Sul vuoto” di Gabriel Del Sarto, Transeuropa, Massa 2011

La presa sul reale parte da una riflessione sul “niente”. Nell’epoca del nichilismo raggiunto e del disorientamento etico la poesia tenta una reazione spostando il proprio linguaggio allo stadio minimo della descrizione di esperienze che si accendono in un’atmosfera di raccoglimento, nei piccoli gesti quotidiani, nel comune formicolio delle esistenze e delle relazioni tra le stesse.

Il tema fondante nella seconda raccolta di Gabriel Del Sarto è proprio la relazione: dalla dimensione lineare del “viale”, di una strada che si allunga, partendo dalle proprie origini, attraversando incroci, siamo condotti ad una inedita vastità, infinita proprio perché non ancora esplorata, quella del vuoto. “Sul vuoto” è la ricognizione di un orizzonte mutato, anche concettualmente, a cui si giunge da coordinate precedentemente vissute ma ineluttabilmente perdute. Il senza-dimensione che il vuoto simbolicamente rappresenta illustra lo spaesamento del soggetto lirico che continua a ritrovarsi nelle micro-percezioni relazionali che lo hanno formato anche attraverso le inevitabili cadute. Scoordinazione e relazione, macro e micro testo (macro e micro cosmo), dimensioni che si creano nella loro apparizione, sciolte da ogni determinismo.

A conferma di quanto esposto andiamo a osservare retrospettivamente l’incipit de “I viali”: “Radiosa, quest’ora,/ e violenta di luce”, sin dagli esordi è possibile notare la modalità di riflessione poetica di Del Sarto che è capace di cogliere l’accensione del reale nella presenza-assenza del soggetto poetico rispetto al contesto, in una posizione anti-dialettica: radiosa è l’ora nella sua violenza (l’aspetto negativo) ma in “Sul vuoto” troviamo: “I ricordi nella luce obliqua/ dalla porta a vetri, un vento leggero e un ritorno/ di senso, molecolare” (“I tigli”, p. 11, vv. 10-12), la luce da violenta diventa obliqua, il taglio verticale della stessa luce, correlativo della vista e della possibilità sensoriale del soggetto, si attenua in una percezione liquida e quasi tattile del reale, per questo sembra decadere l’affermazione della quarta di copertina sui toni più metallici della seconda raccolta rispetto alla precedente; piuttosto gli stessi toni aderiscono al panorama più vasto e spaesante e si abbassano in maniera ancora più decisa, rispetto all’humus relazionale che dominava “I viali”.

La poesia di Del Sarto, adesso, galleggia sul vuoto che si riempie di frammenti costituiti dai contatti basilari (familiari) che piano si innervano creando il tessuto di un racconto anche se provvisorio (la biografia presentata in esergo rappresenta, a mio avviso, l’unico approdo in un mondo senza storia).

La precarietà dei contatti è il tema che va a sovrapporsi ai su accennati motivi relazionali ed è nel resoconto degli stessi, che appaiono al setaccio della trama del racconto, che la ricerca di Del Sarto realizza i risultati più alti, in quella condivisione spazio-temporale della presenza, in una disposizione topologica e cronologica che ci immette nel territorio della scelta e, inevitabilmente, dell’etica.

Alcune citazioni da pensatori contemporanei possono aiutarci a comprendere la temperie culturale in cui sembra posizionarsi la poetica di Del Sarto:

«Il senso è abbandonato alla condivisione, alla differenza delle voci. Non è un dato anteriore e esteriore rispetto alle nostre voci, Il senso si dà, si abbandona. Non c’è forse altro senso nel senso se non questa generosità» (J. L. Nancy, “Narrazioni del fervore”, Moretti & Vitali, Bergamo 2007, p. 117),

la differenza delle voci, dei soggetti immersi nello spazio di una comunicazione che è presenza, crea un mondo con le sue nervature e interferenze (dinamica rintracciabile sin dalla prima poesia della raccolta, “La differenza”).

«Interesse viene dal latino interesse, che vuol dire “essere tra”, o anche impersonalmente “esserci una differenza tra”, e quindi “essere d’importanza”, “importare”. L’interesse è dunque etimologicamente connesso con l’intermedio e con la differenza. […] Noi non siamo affatto padroni del nostro interesse, perché esso non può essere determinato da noi. In qualsiasi situazione si trovi, l’uomo è sempre inter-esse, all’interno della dimensione dell’interesse; non esiste fuori gioco nella condizione umana. Anche il destino più umile sollecita una partecipazione, un amor fati, un interesse affinché si compia» (M. Perniola, “Più – che – sacro, più – che – profano”, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010, pp. 33-34).

Partendo da queste coordinate concettuali in cui sembrano muoversi i testi di “Sul vuoto”, allora appariranno più chiare anche le scelte linguistiche di Del Sarto: l’intermedio dell’interesse che non crea semplice scarto ma, attraverso la lampante differenza degli essenti, rivendica nella presenza l’apparizione di una comunità in continuo movimento e senza confini, oltre quelli topologici del momento in cui si verifica il contatto, apre la possibilità di una parola umile, scabra, che riduce al minimo gli artifici retorici avvicinandosi alle modalità del parlato e, nell’apparente minimo sforzo paratattico, tenta il dialogo: “«Ma – mi chiedi – ma non ti viene mai/ la voglia di avere/ qualcuno per casa, con cui parlare almeno/ sfogarti?»” (“Meridiano ovest”, III, vv. 18-21, p. 25).

Anche solo nella transitorietà dell’evento rappresentato dalla voce dell’altro è permesso all’io poetante di ridefinirsi attore tra gli attori, in quanto l’alterità paradigmatica degli affetti dona senso all’esistenza e una, seppur fragile, nuova identità.

La composizione “Il senso”, che suggella la raccolta, ci dice proprio la speranza dell’esserci nonostante l’assenza di infrastrutture e di segni prestabiliti che guidino il nostro cammino sul “vuoto” spalancato:

Il senso

Il senso era qui, luminoso
e perduto, nell’attenzione improvvisa,
dei tuoi occhi mentre mi parlavi
di lui, del tuo sognare la sua morte
mentre accadeva. Eri qui. Lo sguardo
su te ora è sul vuoto e quella sedia
è come morte, altra morte ancora.
Siamo questa speranza
trafitta dalla cenere dopo la luce
di un gesto, come se avesse questa tua pazienza
ogni storia, o differenza, che sapevi
e raccontavi: così ascoltare era come
assaporare il tessuto che mi lega
al dolore di un padre e di un figlio.
 
Il resto, le guerre, è lontano da qui
e viviamo in un mondo ovvio,
che non si cura di noi, e lo chiamiamo
casa. Ma anche stasera dopo il pasto dopo
il cartone animato, i popcorn caramellati,
soffrire fonda la serietà della vita. Sono
gli infiniti che si raccolgono
nel sonno dei miei figli, sonde e respiri.
E non so quale notte poi,
dolce e infinita forse, è la forma
del racconto che da oggi ti comprende.
Se quel vento è intimità che salva.


«Un essere siffatto, che è capace di avere in sé la contraddizione di se stesso e di sopportarla, è il soggetto; e ciò costituisce la sua infinità» (G. W. F. Hegel, “Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio”, § 359),

infatti

«è la libera provenienza, la liberazione in sé, cioè a partire da niente, dall’ente in generale senza fine» (J. L. Nancy, “Il peso di un pensiero, l’approssimarsi”, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009)

che ci rende consapevoli della nostra “nullità” fino ad aprirci umilmente al senso dell’infinita presenza-assenza.

Come nella lettura di Giorgio Agamben de “L’infinito” (G. Agamben, “Il linguaggio e la morte”, Einaudi, Torino 1982 e 2008), in cui “il luogo della poesia è sempre un luogo di memoria e ripetizione” (op. cit., p. 95), la poetica di Del Sarto riesce ad annunciare l’importanza imprescindibile dell’unico mondo come sempre cara dimora.

Gianluca D’Andrea

IL DONO ALTO DELL’APERTURA: “Lettere nomadi” di Luciano Neri, puntoacapo, Novi Ligure 2010

“Ma prossima è la morte a una immortale
 Vita, chiusa la falsa, apre le porte,
 Vita di vita e morte della morte.
 Chi gli agi fugge per amar naufragi?
 A chi, più del riposo, il viaggio piace
 E il lungo errare è più dolce del porto?”
Franco Fortini

“ma l’impegno è doppio la fatica è dura il rischio

è alto e nel vissuto vive (e nel vivere vivendo

continua a vivere e a morire) e morendo vive

fa un giro pieno ma senza tempo si fa presente

e con il dono alto di chi ha capito…”

(p. 84)

La nuova raccolta di Luciano Neri, dopo l’esordio visivo in ricognizione di un reale frantumato rappresentato da “dal cuore di Daguerre”, espone la parola poetica ad un tour de force itinerante che, proseguendo sulla scia del libro precedente, trasporta verso la maturazione che una perdita di rotta, ontologica in senso pieno, linguistica in rapporto allo strumento utilizzato, possa condurre ad una inedita definizione del reale stesso.

Le premesse tematiche di tale operazione, sono esplicitate da un denso approfondimento filosofico e da una riflessione costante sul pensiero debole tardonovecentesco e dalla domanda capitale sulla effettiva valenza, vista la scomparsa di paradigmi di riferimento etici, dello strumento verbale all’interno delle mutazioni antropologiche in atto nella contemporaneità.

Nel quadro quasi asfissiante di una quotidianità viziata dalla continua riproducibilità e ripetitività degli eventi, dal luogo-non luogo dei social network, finestre aperte sull’incapacità di contatto e celle di clausura di una vita sociale spinta in direzione di un voyeurismo neutralizzante, al luogo altrettanto asfittico dell’informazione veicolata e per questo trasformata in show di propaganda unidirezionale e inibente qualsiasi dibattito, la lingua poetica tenterebbe di violare, in senso spaesante e in assoluta solitudine, il circolo vizioso della spersonalizzazione attraverso una nuova articolazione della scena relazionale. Alcuni libri significativi in questa direzione sono stati recentemente pubblicati, si pensi a “L’attimo dopo” di Massimo Gezzi o a “Bambino Gesù” di Daniele Mencarelli i quali, con scelte stilistiche diversificate, si affiancano a “Lettere nomadi” nello stabilire nuovi scenari d’azione in cui la poesia riesce a manifestare la sua vitalità e forza di opposizione all’imperante confusione di riferimenti etici e all’annichilimento delle dinamiche di relazione.

Il concetto, o parola chiave, sotto il cui segno queste prove poetiche possono essere accomunate è “apertura”, apertura verso un “altro” che contribuisce a definire l’individuo attraverso l’attivazione di un ascolto dis-tratto nella necessità del viaggio, metafora per una potenzialità di movimento che potrebbe portare all’incontro: “poi venne il moto spostando i corpi/ nella brezza e il racconto sulle ossa/ galleggianti una presenza oscura,/ una parola detta, non detta, l’estremo/ dono” (dalla sezione “Ultime notizie”, III, vv. 8-12, p. 12). Ed è la dimensione cinetica, che collegandosi strettamente alla tematica dell’offerta gratuita, del “dono” appunto, ad esibire in tutta la sua valenza la possibilità dell’oscillazione tra partenza e ritorno. Le scelte sintattiche delle prime sezioni manifestano proprio questa tensione oscillatoria in cui i referenti si confondono nella trama dei versi, e soggetti e oggetti si mescolano sulla scena del singolo componimento fino a scomparire rendendo protagonista la stessa scena e quindi il suo movimento: “occhi spostati da sibili/ frangivento archi alla foce/ delle grotte sul povero/ costrutto dei corpi, aria/ levitata dalla terra e virtù// di una grazia sconfinata/ ma senza gravità la caduta/ senza rumore disperso” (“(guerra civile)”, vv. 11-18, p. 24).

La dispersione, come altro concetto fondante del viaggio, insieme alla possibilità provvisoria dell’orientamento nel contatto, contribuisce a chiarire l’inedita situazione in cui viene a trovarsi la lingua – protagonista del libro, realtà sottesa all’ulteriore metafora del naufrago-viaggiatore, il poeta stesso che metonimicamente è il suo sistema verbale – consistente nel movimento sempre più incalzante e fluttuante tra dispersione e orientamento, appunto. Se viene corso il rischio del salto nel buio del viaggio, questo movimento apre in potenza un campo, uno spazio dalle molteplici possibilità ed evenienze, una nuova costellazione di comunicazioni svincolate dalle identità aprioristicamente definite e perciò refrattarie al dialogo: “lo spazio si nutre più del campo aperto/ che al movimento – fugge la chiarezza/ benché la memoria sia un sasso” (dalla sezione “Pagine controluce”, p. 28). Ma le stesse potenzialità sono quasi attenuate dal carattere frammentario dei dati raccolti (i testi di “Lettere nomadi”, non dimentichiamolo, sono presentati come schegge di corrispondenza: “uno scarto […] grazie al quale sperare per una destinazione”, p. 97),  e forse è proprio questa poetica del “minimo” (lo scarto, il truciolo mi verrebbe da dire), della possibilità nel residuo a trincerare nella speranza, nell’aspirazione assidua, il significato della raccolta. Nel racconto frammentato non sembra essere velata una semplice indecisione tra l’ampio respiro della narrazione in versi e la clausura, comunque vivificante, del sospiro lirico (con tutte le potenzialità che il dialogo lirico può aprire ri-attivando intimamente la dinamica di relazione), piuttosto l’acquisizione di un mestiere che, rimodulando i suoi strumenti, tende a eliminare definitivamente ogni distinzione, ed attivando, anche sul piano stilistico, una possibilità comunicativa tra micro-evento (il singolo componimento) e macro-evento (il viaggio-trama).

L’apertura comunicativa, se si accetta la lettura appena abbozzata di uno stile che tenti un cammino spiazzante all’interno della classificazione dei generi, è il riflesso psicologico di una volontà inoperosa che svuotata dalla necessità della scelta potente diviene scelta della necessità impotente; come dice Agamben: “questa potenza o possibilitazione originaria ha […] costitutivamente la forma di una potenza-di-non, di un’impotenza, in quanto può soltanto a partire da un poter non, da una disattivazione delle singole specifiche possibilità fattizie” (G. Agamben, “L’aperto, l’uomo e l’animale”, Torino 2002, p. 70).

Non potendo fare a meno di disporsi alla sua necessità la lingua appronta il teatro veritiero della sua stessa apertura: la presenza nella concretizzazione della sua assenza sempre falsificabile e per questo modificabile: “scrivendo cambio pelle/ rimanendo presente in ogni/ momento della vita separabile/ in un lampo e lì metto a punto/ il necessario per i compagni/ destinati al cammino su alture/ imprevisti.” (dalla sezione “Sosta ad Exharĭa”, V “(margine per lo scrivente)”, vv. 1-7, p. 67). Nella nuova dimensione di necessità impotente all’apertura, la metafora del viaggio acquista e fa acquistare alla poesia nuovi confini e coordinate nella stessa fine della possibilità di orientamento; l’ultima sezione del libro “Fine del ritorno” sembra suggellare, per un attimo breve, una stagione che rimane divaricata sulla propria eternità attraverso le tappe di un cammino mai nato, sull’orlo di un’esistenza che ha da sempre compiuto il passo iniziale in direzione della sua stessa impossibilità, impossibilità, appunto, del ritorno ad un qualsivoglia luogo di partenza: “il confine è quello che non ha nome e dorme in chi lo ha perduto/ e vive nell’altro che ha trovato morto appartato e in ogni madre vive/ e in ogni uomo secondo distanze lontananze avanti indietro in bagliori/ nel bisbiglio di chi si ferma in quell’immagine persa percorrendo pupille/ distratte senza carta ma ferisce più lì o se ferisce perdona” (dalla sezione “Fine del ritorno”, III “(a M.)”, p. 95).

Sull’espansione del viaggio senza fine di una lingua aperta al suo vagabondaggio, così come sui versi ormai irriconoscibili per dimensioni e sviluppo sintattico, “Lettere nomadi” si chiude, sintomaticamente senza un punto fermo, estendendo a noi lettori l’orizzonte vastissimo e ormai libero della sua instabilità.

 

Febbraio 2011

Gianluca D’Andrea

Intemporanea

Intemporanea

(riflessione sull’eterno presente)

 

                                                                                                                   Sul nostro mondo “non è più sostenibile la
vecchia separazione tra «dentro» e «fuori» o,
                                                                                                                     potremmo dire tra «centro» e «periferia»”.
 
Zygmunt Bauman
 

 

Il Popolo non è più una classe sociale (distinzione tra Popolo e popolo, vedi Giorgio Agamben: Homo Sacer). Il Popolo è l’umanità – l’appartenenza e il riferimento.

Popolo = Umanità, nell’equazione si sottintende che sta per realizzarsi il messaggio di Marx (in parte anche quello di Adorno): l’avvento del comunismo appare come la neutralizzazione di una coscienza e l’assoluta inerzia rispetto alla materia (il cui paradigma è rappresentato dal capitale). Non vi sarebbe allora distinzione, o scissione, nel pensiero di Marx, per il quale solo con la realizzazione assoluta del sistema capitalistico a livello globale (globalizzazione “negativa”) si può concretizzare l’essere in comune del Popolo (sarebbe riduttivo, da quanto detto, ritornare ad una distinzione di “classe”, poiché proletariato e borghesia, per quel che è accaduto attraverso il modello occidentale capitalistico nel mondo dagli anni ’60 del novecento ad oggi, sono stati livellati nella “neutralizzazione” dei valori; il nichilismo compiuto infatti non distingue tra valori veri o falsi).

Il comunismo è dunque avvenuto (sta finendo di avvenire) attraverso la frammentazione glocale del Valore Assoluto (la materia), ciò consolida la sua affermazione, metonimicamente, altrimenti non esisterebbe la stessa dialettica dell’Ab-soluto (lo Spirito Assoluto è sempre avvenuto – Hegel – con Marx siamo diventati consapevoli dell’ineluttabilità della nostra presenza in comune anche nella prassi).

Se, come sembra, l’umanità è immersa nel suo avvento, resta nuovamente alla coscienza decidere fino a che punto sia possibile spingersi nel post-umano, senza confondere le sue diverse esigenze con un’incombente dis-umanizzazione; il presente si incontra col futuro e si proietta, costituendo il nostro ulteriore presente: l’Eterno presente in cui non sembrano più occorrere altre dinamiche e strutture. La tecnica fonda, dalle origini, la condizione precaria del post-umano e, in tal senso, l’uomo è sempre stato postumo: emancipazione e/è salvaguardia, libertà e/è protezione.

Mentre essere dis-umanizzati conduce all’autodistruzione (campi, di concentramento e non), essere consapevoli della post-umanizzazione, sempre avvenuta, comporta una verifica dell’impossibilità di azione, sposta l’asse decisionale sul terreno “mortuario” dell’impotenza. L’umiliazione dell’azione limita lo stesso volontarismo del Potere, neutralizza la potenza dis-armandola.

La post-umanità, essendo assoluta, all’evidenza della sua stessa definizione rende sempre dialettica la questione del miglioramento. Dopo l’umano, l’umano dopo l’umano è pur sempre una “determinazione” (la scelta, il clinamen) a-prioristica.

L’indeterminazione non conduce a nient’altro che a ristabilire il processo dialettico, perché non può che rinunciare, data l’incommensurabilità di ogni sistema, alla stabilizzazione totale dei sistemi stessi, per questo restiamo fermi all’assolutizzazione, senza interno o esterno, di un insieme consustanziale al proprio fuori-insieme: la meta-dialettica in cui consiste il post-umano nella sua ineffettività. La speranza, impercettibile metafisica, decontestualizzata da ogni atteggiamento dogmatico e attivistico, sembra rappresentare “l’infimo inizio” dell’ulteriore procedimento dialettico.

La stessa indeterminazione allora ci determina e ci assimila ulteriormente (la lenta deriva di un tempo cosmico non è paragonabile alla relatività di un tempo umano) all’Ecosistema (ovviamente il mondo, non più la tribù e forse neppure il pianeta), l’insieme di appartenenza che si dimentica a causa – nella determinazione – dell’indeterminazione.

Contribuire alla salvaguardia del mondo, di una vita nello stesso mondo, perché la coappartenenza continui a verificare la reversibilità del rapporto vita/morte. Non vivere il capovolgimento (come ancora in Marx avviene nella sua sfida dialettica con Hegel) ma la sua neutralizzazione, essere per il fatto stesso di essere perché siamo il sistema nella sua salvaguardia, lasciarsi andare all’impotenza, la libertà stessa dell’Ecosistema.

 Gianluca D’Andrea

Humus

Poesie della “non-vita”: “Humus” di Francesco Maria Tipaldi (L’Arcolaio, Forlì 2008)

“Questo infimo inizio prende origine dal fatto che l’uomo,
a differenza degli animali, sa di dover morire”.

Mario Perniola

“Morituri te salutant” e il germinare ibrido (stile bestiario) degli esseri, scenari del nostro medioevo futuro, preconizzato nel 1995 da Massimo Miccoli (vedi “Telèma 1”, estate 1995) partendo da una riflessione che verteva sulle implicazioni economiche e politiche della diffusione di Internet.
Il nuovo senso della parola religio, non più “riguardo”, né “legame”, piuttosto desiderio individuale, fantasma di comunione. Comunione con la morte, comunicazione della morte e sua futilizzazione, questo il panorama su cui ogni giorno si affaccia la nostra esistenza.
Un approccio diverso di lettura del reale invece pare emergere da un libriccino di recente pubblicazione: “Humus” di Francesco Maria Tipaldi, dal quale è doveroso tirare fuori qualche considerazione.

È stato detto correttamente di come questa poesia sia concentrata su una dimensione escatologica ed etica, a sottolineare la giustezza della definizione aggiungo due citazioni:

“La verità ha la struttura della finzione” (J. Lacan);

“Un’etica che tiene spericolatamente testa alla mostruosità latente dell’esser umani” (S. Žižek).

In effetti a farsi amare è il tentativo della lingua di mescolare le ambivalenze in essa residenti. La sintassi si lascia sciogliere da ossimori talmente elastici (“Ed io sono andato/ dove la pioggia cancella le pozze/ e le merde fanno bollire la frutta, i cachi”, p. 26) da risultare per paradosso “comparativi”, è il sintomo di un’esigenza che riguarda una tutt’altro che sinistra accoglienza del mondo, una coincidenza appunto. L’atmosfera in cui si svolge questo excursus poetico è nuova e germina in rapsodie spezzate, forma una rete di concetti e, nonostante l’insistenza dei titoli delle sezioni paia suggerire il contrario, non è implicita ai testi alcuna musicalità, semmai solo un’insistente (a volte assordante) dis-armonia prosastica. Sembra qui emergere la possibilità di un limite (soglia) della poesia di “Humus”: fino a che punto lo stile è in-controllato? La sua antimusicalità è un regime o il margine della composizione tendendo ad un allargamento strutturale ( lo si avverte nel passaggio dalla prima raccolta “La culla”, composta di testi brevi, ad “Humus” in cui alcune composizioni hanno il respiro del poemetto) prelude ad una versificazione melodica? Il canto, a mio avviso, è già soave, ma voglio immaginare ulteriori lavorii sull’impalcatura musicale dei testi, perché è di una nuova musica che la nostra poesia ha bisogno e in quella di Tipaldi sono manifeste tutte le possibilità di questa diversa strutturazione sonora: “Tutta la carne è erba/ e se l’erba è carne, è di uomini spolpati/ oltre ai cani, persino i barbieri/ fanno il pelo più bianco” (p. 22). Si noti, in questo estratto, l’incrocio dei suoni, dal chiasmo in inarcamento alla tensione delle bilabiali con l’alternanza tra sorde e sonore a riprodurre il balbettio e lo scoppiettio di una nuova nascita, ribadita dal ribaltamento dei termini in questione e dalle tematiche dell’invecchiamento e del disfacimento. Un infimo inizio germoglia e porta con sé i disastri avvenuti, mette in guardia, sentinella e spia, sulla morale: “I cieli non sono umani./ I cieli non sono umani, non umana la luce/ la luce cancella, dannatamente/ cancella./ Il verso che si leva fa male agli occhi” (p. 54).
In poca poesia recente è dato avvertire una simile tensione escatologica, energia sprigionata dalla volontà di ri-creare un mondo; penso a due libri che potrebbero essere accostati ad “Humus” su questa linea: “Macello” di Ivano Ferrari e “Al Mondo” di Teresa Zuccaro. Per comprendere il comune orizzonte concettuale dei tre libri, dal quale pare emergere il germe (l’infimo inizio) di una vita che si distanzia dalla stasi morale a cui la riflessione sul male avvenuto, filtrata dalla comunicazione odierna, ha condotto le nostre coscienze, riporto due testi dai libri citati:

“Su un oceano colorato malamente/ galleggiava una piccola isola/ le onde spargevano le origini/ i coralli cicalavano al tramonto/ e i pesci si rigeneravano alla fonte./ Era una goccia di sperma/ cadutami nella vasca del sangue/ in una mattina/ di forte macellazione”(Ivano Ferrari, Macello, Einaudi 2004, p. 88).
In “Humus” troviamo: “Eravamo germogli di pane, abbracciati nel fango”. L’unico modo per essere coscienti del male è comprendere la sua esistenza inesprimibile se non attraverso la consapevolezza della sua funzione fertilizzante, nonostante lo scandalo.
“Tu non sei mai esistito, giusto un’ombra/ un fantasma nero/ che guarda da un angolo/ la frutta che va a male,/ la posta accumulata,/ la polvere che cade dappertutto/ da questa clessidra gigantesca/ e rende tutto uguale” (Teresa Zuccaro, “Al Mondo”, Sinopia 2006, p. 68).
“Humus” sembra rispondere: “Non ricordo esattamente quando./ era tutto un pulsare la polpa/ […] Il posto sembrerebbe lo stesso, vi racconteranno/ […] Cosa sarebbe stata la nascita, o neppure?”.
Dal mondo post-umano all’esistenza postuma, la terra vibrando nelle sue oscillazioni si svela finalmente umile e l’uomo abdica alla pretesa di dominio, ripiegandosi in sé accetta il suo stato larvale fino alla prossima metamorfosi (desiderio, religione).
“Humus”, insieme agli altri due libri, si limita a dirci il compito della poesia, perennemente il suo “infimo inizio”.

Gianluca D’Andrea

Senza Titolo

Penso alle volte che noi (tutti i viventi) –

siamo un messaggio che viene scambiato

tra due (o nx) entità.

I nostri corpi, con tanto grossolani errori di costruzione

– che però potrebbero essere

grossolani scherzi da osteria – tipo usare le

stesse zone per l’espulsione di detriti e la

fabbricazione di nuovissimi corpi, siamo

appunto qualcosa da decifrare,

con beneficio che il messaggio venga a sua

volta certificato

e portato a conoscenza del suo stesso senso

Senso che si sente senso – ma cripticamente

tuttavia – e sepolto in sé, nel suo stesso essere “vita”

singola vita.

Latente ideologia in ogni malattia

in ogni corpo vivente

(atto scritto nonostante il dito a scatto 2004?)

Andrea Zanzotto (Conglomerati)

Inno metalinguistico sproiettato

Inno metalinguistico sproiettato

La città “è” la banalizzazione del luogo, lo spazio libero anticoercitivo, senza limiti se non quelli fisici dell’altro oggettuale (palazzi, marciapiedi, pali, piloni, semafori, cani, gatti, uomini ecc.).

Sfiorare i limiti, le soglie corporee – primo grado di un rapporto aleatorio – inizio di una pregnanza avvertita come irriducibilità del mondo, l’ormai classica irreparabilità.

Solo l’essere banale, conscio della propria mancanza di originalità, della propria messa al bando (che si mette al bando), riesce ad intravedere una diversa singolarità comunicativa divenendo il principale nemico dello stato in quanto a-politico abitante, o meglio, commerciante-cliente non cittadino, mercante primitivo del proprio essere disseminato che, essendo consapevole della propria singolarità comune, diviene responsabile della propria assenza di scopo o fine (sé in-finito, in ogni caso continuamente provvisorio, precario). E’ questa – dell’essere singolare comune – l’unica prospettiva plausibilmente slegata da ogni forma di nichilismo, l’ottica nuova che riesce a svincolarsi dal tentativo concettualmente obsoleto di una ricostruzione identitaria, quel punto di vista in-finitamente di-versificato il quale conducendo ad effettiva estraniazione produce il libero movimento dell’essere, la sproiezione nella varietà-verità del mondo.

Proprio perché a-causale (casuale), il singolo comune è inadatto a sciogliere il nodo individuale e in tal modo è sempre pronto ad accogliere e disperdere (da un punto di vista fisico, si pensi ai residui organici e non), ad appena avvertire – sfiorare – l’altrui soglia ovvero il comune esser vago nel vuoto: ogni eventuale legame è disciolto nell’eventuale presenza-assenza. Metaforicamente l’essere singolo comune è campo coltivabile indefinitamente a cui s’intreccia (non si sovrappone) la figura del seminatore razionalmente consapevole dell’impossibilità di auto-inseminazione – in pratica la fertilità di un interscambio attivo, osmotico, d’azione. Paradossalmente questa sproiezione metaforica dell’essere singolo comune tras-pone un principio individuale dell’ordine delle cose, non un ritornare dialettico bensì uno stornare in itinere: nel senso che l’azione sproiettata nell’a-spazialità (precipuità ineffettiva) del continuo movimento spaziale dis-pone alla creazione di un mondo (mistificazione assidua: la nuova tecnica o la nuova arte se si vuole).

La nuova visione che scaturisce da questa trasposizione dispositiva dell’essere si spiega in termini di stupro identitario che il singolo compie nell’approccio, accettazione, connessione all’altro (abolizione definitiva di qualunque concettualizzazione di verginità traslata; piuttosto ritorno all’origine etimologica cioè alla spinta e poi forza, energia, turgore, nutrimento, maturità – lo slancio è l’opposto della stasi, l’intatto l’immacolato è deflorazione). Stupro identitario cioè perdita di una memoria atavica, il vetusto valore della tradizione occidentalidentitaria: la dissoluzione della trita memoria è pratica, ginnastica di continua sostituzione, etica nuova nuovo costume, nuova prospettiva, frustrazione del fine – la verità – nessun centro, nessun bersaglio, l’unica attenzione possibile è dis-tratta e quindi attratta su ciò che potrebbe sfuggire.

Solo un’attenzione disattenta all’evidenza del momento è accadimento del reale, desiderio d’esterno, dispiegamento di mondi intreccio momentaneo e dissoluzione di trame, sboccio, aria, amore. Scaturigine spontanea di una partecipazione ineluttabile proprio perché involontaria, la vita è dovere esorcizzare la morte come concetto a-priori, blocco dovuto a un preconcetto identitario e umanista, nonché, in quanto esperienza decentralizzata, apertura al possibile.

Gianluca D’Andrea (23/05/2003)

http://www.nabanassar.com/testinno.html

 

Simone Cattaneo

simone-cattaneo

 

 

 

 

 

 

 

 

Solo per un sentire comune,

un abbraccio che non fu mai dato

Non venirmi a parlare d’amore né di lavoro

non so nemmeno paragonarti al vento

figurati se mi può succedere qualcosa,

potrei svegliarmi di soprassalto dal rumore

del vetro sbriciolato e trovarmi riempito

di cinghiate chiuso nel baule della tua Alfa,

sarebbe un sogno, sbiadire piano nella mattina

in un lampo liquido di metallo.

[Simone Cattaneo, da Nome e soprannome]

Composizione Video

Cominciare da su (l’allegretto di Nietzsche, la riflessione sull’alterità di Nancy e quella sull’estetica che dovrebbe far politica di Hillman) e scendere finché  il cerchio si chiuderà inconcluso (e inconcludente) per restare in tema.
Carpi metonimicamente mi sembra rappresentare bene l’italia (italia italietta mia, affonda nel tuo bel mare).