[Recensione che è possibile leggere, prima ancora che su Nabanassar, qui e qui]
nel bosco che ti sbava sulla pelle
Si riprenderà tutto l’acqua fino alla prossima glaciazione. Niente di catastrofico, è solo la possibilità aperta da questo libriccino così diverso dall’ondata letteraria e classicista della poesia italiana attuale: mi riferisco a un versante linguistico che mi ostino a definire “lombardo” per impostazione narrativa e sobrietà tematica nonché per scelte lessicali e sintattiche attratte da una semplicità che, a volte, rischia la stucchevolezza. Allo stesso modo La mente paesaggio è distante da qualsiasi sperimentazione risultando piuttosto un libro basilare, originario e, a ben vedere, profetico. Ogni parola è calibrata su misure minerali, i versi non esistono, sono le risultanti di un linguaggio esploso da tempo, isole o villaggi di palafitte nella distesa della pagina; questo stesso galleggiare è il risultato di un vecchio tragitto e la possibilità del nuovo, posteriore ad ogni posteriorità. Il movimento, il cammino appunto, nel nuovo sentiero della storia che, a scanso di equivoci, non si è mai interrotto, nonostante l’uomo. Diceva Thoreau: «Il sole si spegne su qualche terra lontana, dove non è visibile alcuna casa, con tutte le glorie e lo splendore che prodiga alle città, e in maniera mai vista prima» (H. D. Thoreau, Camminare, Mondadori, Milano 2009, p. 59); le ultime parole di La mente paesaggio recitano: «dove sei adesso/ il sole cuoce il pane/ è perfezione// completato il corpo/ e tu lingua puoi perderti/ qui e non/ altrove» (p. 91): è la fine di un percorso che, come nell’immenso pensatore americano, realizza l’esistenza compiuta della lingua e del soggetto e che, sfondate le barriere socio-economiche e perduti i confini, non può che continuare a sorprendersi della ricchezza metamorfica e dello stesso cammino che apre continuamente al mondo.
In un libro di poesie pubblicato nello stesso anno di La mente paesaggio si ripete il medesimo messaggio: le parole, la lingua, sono doni di apertura alla possibilità di trasformazione per quanto possano condurre alla perdizione – che, come abbiamo potuto constatare nel libro di Laura Pugno, ha un effetto ri-creante – o al nascondimento del reale stesso (ma sono implicite funzioni del segno la mistificazione, l’infingimento – solo il riconoscimento dell’inganno apre uno spiraglio alla fede): «Copriremo/ con le parole il vuoto che abbiamo potuto vedere -/ solo disordine oltre le nuvole e i nomi,/ i segni splendidi a nascondere le cose» (G. Mazzoni, I mondi, Donzelli, Roma 2010, vv. 24-27, p. 58). Nonostante i toni e gli stili diversissimi, entrambi i libri ci conducono dentro la nostra storia, la storia di un millennio nato postumo e consapevole di ciò che Ivan Illich aveva prognosticato quasi quarant’anni fa: «Una volta oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell’iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall’educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia. Questo quantum segna il limite dell’ordine sociale» (I. Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 12), ovvero consapevole di essere ad un passo dal disastro socio-economico, soprattutto dopo due tappe significative quali l’11 settembre 2001 e il 16 settembre 2008, data in cui si verificò il fallimento della banca Lehman Brothers, conseguenza dello scoppio della bolla finanziaria negli Stati Uniti nel 2007 e avvento della crisi economica mondiale.
Ritornando a La mente paesaggio e consci di un disastro di là da venire eppure già avvenuto attraverso tutte le informazioni che giungono a ravvisarlo, ecco che le dimensioni di tempo e spazio vanno riformulandosi lontano da ogni determinismo o causalità e, attraverso la consacrazione dei concetti di precarietà e indeterminatezza fisica, appaiono le dimensioni liminari dell’acqua (da habitat originario a rispecchiamento e riconoscimento nella mutevolezza) e del bosco («chi aprirà la porta che dà sul bosco» p. 85, v. 6; «il giardino è all’interno del bosco» p. 86, v. 1; «la porta che dà sul bosco/ non è diversa dalle altre» p. 87, vv. 1-2), casa reale a naturale di esseri che ineluttabilmente conservavano «la chiave/ in una tasca/ cucita nella carne» (p. 87, vv. 4-6) e che, nonostante un cammino di allontanamento durato millenni, custodiscono l’essere dentro il sistema mondo in un attraversamento che è memoria. Difficile da spiegare l’evenienza che tutta la costruzione umana originata dalla concatenazione causa-effetto si stia sbriciolando per divenire uno spazio-tempo assoluto ricchissimo di venature. I microliti richiamati come un’eco nel sistema linguistico della Pugno – e che formano l’architettura rizomatica del libro – intraprendono questo percorso di spaesamento e raccoglimento e si sostanziano come unico nutrimento: «la pianta che cresce sott’acqua/ con foglie carnose/ come salvia -// la pianta perduta/ che cambia/ la tua carne// come grano/ perfetto e splendente/ che cresce sott’acqua» (p. 60). Assistiamo al passaggio verso nuove coordinate che fungeranno presumibilmente da dimora, non assistiamo alla nuova etica dell’abitare in quell’oikos che «non è più la polis (la città) ma l’oikoumene (l’insieme della terra abitata)» (S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi – Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 70) ma siamo a un passo dal ricongiungimento ad esso: «il non dolore/ torna, il non/ conosciuto prima/ del dolore// lingua piccola,/ ma ancora/ viva/ che sei la stessa lingua/ la stessa voce// e dirai il paesaggio/ il corpo non/ dimenticando» (p. 90). Per incominciare a ri-abitare il mondo bisogna attraversare questo stesso percorso di de-nudamento (la poesia lo dice con i suoi strumenti e La mente paesaggio diventa uno dei paradigmi più profondi, perché unico esempio finora in Italia, di una vera spoliazione e decostruzione identitaria), in termini socio-economici «Bisogna diventare degli atei dell’economia, cioè non considerare un’evidenza indiscutibile il fatto che la crescita di qualsiasi cosa in modo illimitato è una buona cosa, e che la produzione di beni materiali è più importante dell’organizzazione politica o della felicità familiare» (S. Latouche, cit., p. 53).
Se è vero che «l’arte rappresenta un fondo storico della coscienza spaziale, e l’autentico artista è un uomo che vede gli uomini e le cose meglio e più esattamente degli altri, più esattamente soprattutto nel senso della realtà storica della propria epoca», come dice Carl Schmitt (C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002, p. 70), allora è ancora un’opera d’arte, in questo caso un’opera di poesia, a risvegliare e illuminare il senso di appartenenza e cura del mondo che due secoli di sviluppo economico tecnocratico hanno allontanato dalla prospettiva umana.