Un passero solitario – Stefano Ferreri

Lawrence Arabia, “The Sparrow”

[da qui]

Crude moustache, exposed brains

it made the pretty boy look highbrow

so I gave myself the same

Una bella metafora disinnescata da un ritratto pubblicitario di Zac Efron in metropolitana.

Così Lawrence Arabia, senza filtri in una recente intervista, rinuncia ai punti di quella che si sarebbe detta una comoda allegoria del primato dell’ingegno, e insieme della finzione, nel dorato mondo dell’arte. Se pare garantito al mandarino che esista una logica più probante dietro quelle poche liriche e quella copertina, pure impenetrabile al momento, resta fuori di dubbio che una nuova metamorfosi sia effettivamente in atto nel retropalco del maliardo cantautore neozelandese. E non certo per esaltare un’arguzia già di suo più che rimarchevole, come lui vorrebbe farci intendere.

Malcelando la propria insofferenza verso un moniker impossibile da promuovere sotto le forche caudine di Google, James Milne si rinnova nei panni dello sparviero e porta avanti il suo adorabile personaggio da romanzo con ostinata devozione, attento per una volta anche a non calcare troppo il tratto. Lo scintillante novello Peter O’Toole dell’esordio, il rigoroso lupo di mare del capitolo secondo, ed ora questo criptico gentiluomo magrittiano. Tre maschere da anomalo seduttore che confinano in un passato già remoto l’imberbe bassista dei Brunettes, il fanatico delle citazioni alla guida dei Reduction Agents ed il turnista di lusso assoldato con buona lungimiranza dai Will Sheff e dalle Feist. Fino a ieri il cantante e musicista di Christchurch rientrava in agilità nel novero di quei curiosi artisti imperfetti che esercitano il genio ad intermittenza, timidi sprazzi di colore vero ed un coniglio fuori dal cilindro solo di tanto in tanto. Un po’ la versione Kiwi di Richard Swift, di Jim Noir o Kelley Stoltz, ad ingrossare le fila degli eterni talentuosi incompiuti, condannati a reinventare con stile la solfa della tradizione pop senza mai il piacere di concedersi due passi sotto i riflettori di una ribalta che conti qualcosa. Il Lawrence Arabia del disco eponimo sfoggiava senza imbarazzo i gradi del perfetto alfiere naïf: una sorta di dandy sofisticato ma polveroso, alieno alla grazia autentica, adepto di un’insolita maniera noir e con qualche debito di troppo nei confronti di Bowie. Limiti marginali, considerata quell’innata e felicissima inclinazione all’easy listening poi tradotta in squisitezza armonica, hook assassini e deliziosi refrain uptempo, in gemme imperdibili quali ‘Talk About Good Times’‘Look Like a Fool’ o ‘I’ve Smoked Too Much’. Molto più, evidentemente, di un’acerba e sfuggente dichiarazione di intenti, nonostante il subisso di approssimazione ed una disarmante, cronica indolenza a rendere più pesante l’altro piatto della bilancia.

Arrivato con ogni probabilità all’ultimo appello, Milne ha saputo invertire la rotta dello sciagurato commodoro di ‘Chant Darling’, irregolare e masochista amante del frammento, del nascondino e di un crooning consumato quanto dispersivo. ‘The Sparrow’ solletica le papille con l’inatteso retrogusto di una sorpresa quanto mai gradita. Insieme un piccolo album, una grande prova di maturità e la palestra perfetta per esercitare in totale libertà le proprie intuizioni trasformiste, un po’ come era capitato con l’estemporaneo gioiellino ‘The Dance Reduction Agents’. Senza ingenuità nel tocco in questo caso, senza futili baldorie da salotto. Con la discrezione di chi è nel giusto ma non ostenta, certifica le credenziali di un’anima cangiante e piacevolmente discontinua, raffinata ma mai ruffiana, bruciante per ironia ed incline ad un romanticismo da perdente d’altri tempi, quasi si trattasse del promettente braccio destro di Neil Hannon nella sua rincorsa impossibile alla deità di Ray Davies.

Eppure splende. Dietro le tonalità cupe dei fondali, nello spazio d’ombra sotto la tavola armonica del pianoforte. Rifulge davvero la più limpida delle sue doti, la meticolosa opera di riciclo intelligente che per la critica non merita in genere molto più del marchio d’infamia di quella parola oscena – “derivativo” – ma che James ha condotto a livelli di scaltrezza ed eclettismo semplicemente impressionanti. Per giunta senza rinunciare alle cadenze sornione o ad un distacco che è pura apparenza: l’arte di addormentare il gioco per poi colpire a tradimento con quella voce malandrina, giostrando con assoluta perizia tra le più disparate direzioni melodiche. Concedere licenza di lenocinio alla propria vena decadente equivale a garantirsi un adeguato raccolto in quanto a canzoni da crepuscolo. Così discrete, anacronistiche, ideali per i titoli di coda di un film ancora tutto da girare. Dietro la macchina da presa e sotto l’impeccabile tweed di oggi batte sempre il cuore arruffato del primo Lennon solista, assecondato in viso dallo sguardo contemplativo del poeta imbelle e sognatore, fin troppo disteso per poter passare da maledetto. Il sogno questa volta fotografa le sponde di un perfetto isolamento in cui perdersi, con la certezza di poterne riemergere appena il giorno si faccia propizio. Anche nel tedio di una pedalata verso la spiaggia, sotto i non buoni auspici di un corteo di nuvole nere, quel che davvero interessa Milne è l’istantanea di una solitudine beata, l’umore cristallizzato di un attimo che è suo e suo soltanto.

Infettato e compiaciuto dal fascino fuori moda delle sue suggestioni, il ragazzo si adopera per sviare l’ascoltatore con più di un diversivo formale: annebbiandolo con il sinistro free-jazz dell’unico filler (‘Dessau Rag’), titillandolo con il minimalismo frivolo di un vestito anni ’80 (‘The 03’), dilatando la scrittura e plasmando con opportune rarefazioni strumentali un’aura space-orchestrale degna di Jason Pierce e dei suoi Spiritualized (‘Early Kneecappings’). Oppure sfoggiando il medesimo tono tra il sommerso e lo svagato del disco di divertissement condiviso pochi mesi fa con Mike Fabulous, non proprio in un nuovo sconclusionato pastiche di retro-funk, soul plastificato e pastoso modernariato seventies, ma con cadenze più languide, sinuosa architettura bossa nova ed un profluvio di fiati ad inturgidire l’atmosfera (‘The Bisexual’). Nel ventaglio di artifizi policromi l’unica costante resta la stoffa del bravo sarto, quella che fende l’aria e non nega mai il conforto della freschezza. Anche le rare volte in cui torna a farsi sentire la chitarra, stesse tonalità estatiche e finemente nostalgiche. Armato di archi, ritmiche pencolanti ed un falsetto da antologia, Lawrence Arabia modella in pochi passi una posa strabiliante dello struggimento, tralasciando le caricature del vagheggino estenuato per concentrare ogni attenzione sul ritorno in Nuova Zelanda trasmesso dal suo specchio. ‘The Sparrow’ racconta proprio di questo precipitoso viaggio verso casa, in valigia gli incantesimi barocchi di Scott Walker, l’approccio pop cameristico di tanta musica britannica fine anni sessanta e l’investitura a figliol prodigo del Canterbury sound. Una fuga da Londra che ai più smaliziati ricorderà quella non meno repentina di Harry Nilsson e che, a ben vedere, riporta tutti gli indizi proprio sull’indimenticabile autore di ‘Aerial Ballett’ e ‘Nilsson Schmilsson’. Glabro ed incravattato o rustico nel suo bel trench. Se sotto i boccoli biondi Milne non era mai riuscito a smarcarsi dall’impressionante somiglianza con il suo vero maestro, per non tradirsi se scoperto alla fonte non poteva che ricorrere ad un ultimo, estremo camuffamento. Pennello, colore bianco, un tocco di marketing esistenziale.

Con quel poco di fortuna in più, l’avrebbe anche fatta franca.

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