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Sono partito dalla fine, dall’indice, anzi dalla foto del retrocopertina: lo scrittore indossa un paio di occhiali posticci, sembrano essere stati aggiunti scherzosamente con Photoshop. A fine lettura ci si accorge che degli occhiali non c’è più traccia.
Due passi indietro e di nuovo all’indice, in cui i titoli sono rappresentati dalle lettere dell’alfabeto (dalla A alla Z). Provo sollievo. Una maniera spiccia e sequenziale di accomunare situazioni e parole senza gerarchia alcuna o guida di senso se non la temporalità alfabetica. Tanto, ci penseranno le avvolgentissime spire della sintassi, le enciclopediche accumulazioni e rutilanti a stringere il lettore, a subissarlo nei bagordi e nella sfrenatezza, che da un lato uniscono, da un altro separano (è la capacità di reggere le morse della vertigine a far selezione).
Con questo romanzo Luigi Grazioli ha scoperto “la capacità […] di dimenticarsi e diventare un altro!”, come se la cura consistesse in questo passaggio, apparentemente largo, in realtà velato da correnti dimentiche, che accolgono pensieri, azioni, accelerazioni improvvise e franta minutaglia sovrintesa da un monologare esclamatorio e percussivo.
Una stanchezza/vigore primordiale – sciolto da mano che scrive – si perde, permane nei meandri del romanzo; una pressione fortissima che, invece di trastullarsi affondando nel nero, trova la gioia del dire.
Prendere più strade, non pensare ad una sola cosa, darsi aria; del resto a ciò che è “sempregiovane” conviene corrispondere. Innalzare la posta, giocare nel campo avversario, scatenarsi, fare il bello e cattivo tempo, esser tempesta, mai pappamolle! Un narratore antidiluviano e apocalittico col sorriso stampato in faccia.
Il romanzo non sopporta lo si interroghi in profondità, non essendovi dimensione.
Ma la misura di Grazioli non sembra essere nel/del romanzo. I personaggi di “Tempesta” servono a mettere a tacere la voce interiore, che fa capolino parenteticamente o di soppiatto. Prosaicizzarsi, rincorrere il romanzo significa avere durata, un incantesimo per la vita.
Il libro è umile, saturo di terra, infine evaporato.
Ogni parola un gesto preciso. Le parole (piccole menti) hanno un corpo, si materializzano e le animelle liete seguono. Tatuate. Una prosa ritmica, splendidamente meccanica, di un pensiero non più bisognevole di revisione, un non pensiero. Perfino dallo scherzo grasso fionda la sapienzialità.
La Tshala inseguita per tutto il libro è il desiderio spostato in avanti. Avanti e pedalare. L’altra vita.
Forse ciò che ora è a perdere, varrà proprio in quanto perso, e quindi in qualche modo avuto…Ora è indifferente. Che sia perdere, va bene. [p. 116]
Hai vicino ciò che cerchi, mentre il lontano insiste a pelarti.
Angelo Rendo, 24 maggio 2011, diritti riservati.
Confermo.
Grazie Angelo
un abbraccio
grande libro!!
Angelo (non l’Angelo di nabanassar)
🙂