Giovanni – racconto di Natale

GIOVANNI (di Giuseppe Cornacchia, 1996)

Quando nacqui, mio padre aveva ventiquattro anni e mi mise a fissare le api sulla cima della montagna. Faceva freddo, ma una lupa s’accorse di me e venne a tenermi nel grembo come fossi suo figlio. Il bosco puzzava di muffa e i cercatori di funghi palpeggiavano la terra, così da spremere frutti, ma nessuno s’accorse del fagotto accanto alla pietra.

In cima al monte c’era una croce di legno; sotto, una cava, la tana di lepri. Per due giorni una lepre m’ha dato dei frutti, prima che arrivasse la lupa. Mia madre osservava dal basso, aveva una lente. Mio padre le aveva proibito di venirmi a guardare: “Se vuoi che sia un uomo”, le aveva detto, “deve imparare a morire. Se dopo dieci giorni sarà ancora vivo, Dio avrà avuto pietà di lui e potremo crescerlo sano. Se morirà, non era qui il suo posto: Dio lo riprenda.” Mia madre non capiva, piangeva, poi aveva pensato che ogni suo figlio avrebbe tremato se il primo non fosse sopravvissuto, così si mise a pregare e osservare. Aveva pianto nel ringraziare la lepre, aveva morso le labbra invidiando la lupa.

Il decimo giorno ero ancora vivo. Ero il figlio della lupa, mio padre dovette sparare per portarmi con sé. Mia madre fu fredda: non ero più suo figlio, voleva che morissi, voleva accecarmi, voleva mangiarmi. Si ammalò di rabbia e per un mese non uscì di casa: in paese si disse del bimbo bastardo e lei non sopportava, pensava che avessero ragione.

Avevo due anni quando mia madre morì. Ci fu un forte frastuono giù nel granaio, mio padre corse, ma non ci fu nulla da fare. Tutto il paese fu al suo funerale. “È colpa del figlio bastardo” si disse, e mio padre annuì.

Paesaggi di Babbagia: le rocce di monti gentili, i pendii di ripe scoscese, il mare di fianco alla foresta. I paeselli sono avamposti, i lupi s’avvicinano, a volte bisogna far fuoco davanti alle case per tenerli lontani. Le notti appartengono agli spiriti: col buio il mondo di ogni pastore si dilata fino a divenire reale, incubi e domande irrisolte. Per questo l’alba è tanto ben accetta: si radunano le capre e si tira su al monte. Certo, fa freddo, ma il sole allieta, il sereno ristora, le capre si rincorrono. Né fa paura lo schioppo nemico, morire di giorno è come giocare, si vede il sangue fiottare dal petto e si va velocemente, appena una smorfia.

A questa terra devo quello che sono. Quando salto sui rami sento graffi e dolore, ma non tremo: io sono il bimbo bastardo, quello che il padre ha abbandonato alla montagna perché aveva ucciso sua madre. Avevo due anni. Amo i burroni, amo le sorgenti nascoste tra i colli, guardo cinghiali, sento i fili dell’erba, conosco i frutti dai fiori, prendo le pietre e le lancio, le osservo cadere; la brina si scioglie a rugiada e i grilli s’intonano,frinire-frinire-frinire.

Dietro la casa dove nacque Antonino c’era una stalla. Quando tutto fu abbandonato, due forestieri chiesero di chi fosse, non ebbero risposta e si misero loro. In breve quel luogo tornò ad animarsi con bestie e cristiani. Fecero vigne e a settembre l’aria frizzava di mosto. A gennaio uccidevano i capponi.

Una sera un vecchio del posto si fermò a mangiare con loro. Fuori pioveva e aveva casa lontano. Per ringraziare, racconto’ del bimbo bastardo: “C’era una volta un uomo felice. Sua moglie era sana, il suo gregge pieno di latte, la sua terra piena di frutti. Grandissima gioia fu sapere che avrebbe avuto un figlio. Glielo disse sua moglie, lei lo sentiva dentro di sé e lui lo sentiva dal grembo di lei. Poi lo disse in tutto il paese.
Fuori di qui, a mezza giornata, c’è una casa infracidita. Dentro abitava una vecchia, una strega. Mio padre diceva del figlio, lei l’aveva maledetto e quello era morto malato, d’un male che nessun prete era riuscito a guarire. Questa vecchia prese a malvedere la casa di Giovanni. Faceva erbe, spandeva polveri, e lui impazzì. Mise suo figlio appena nato in cima alla montagna a guardare le api e quello divenne il figlio della lupa. Tenuto lì dieci giorni, sopravvisse, ma la madre non volle più saperne: era il bimbo bastardo.
Maria s’ammalò, prima di rabbia, poi di testa. Due anni dopo morì. Un incidente, si disse. Io so che lei si infilò una roncola in gola, l’ho vista prima che Giovanni arrivasse. Giovanni regalò suo figlio a due pastori della montagna, ma quelli erano così poveri che lo tennero un giorno, poi lo misero nel bosco. Non si sa se è vivo o morto.
Giovanni morì poco dopo. Io non so perché a me sia stata data questa sorte, ma sapevo che sarebbe morto; è vero, lo giuro, gli spiriti della notte possono essermi testimoni. Ascoltate. Ebbene, io dormo di fronte a una finestra su cui batte il sole al pomeriggio. Quando fa giorno, accade che sul vetro ci sia vapore e che con la mattina vada via. Una volta, un mese prima che morisse, un’ombra simile al suo viso è rimasta impressa sulla finestra, prima di sparire. Sorrideva, sembrava salutarmi. Io ero sereno nel guardarla, sapevo cos’era e non ero triste. Sapevo che Giovanni sarebbe morto, che lui lo sapeva. Sapevo anche che era sereno, così lui, così lui verso di me, e ciò mi tranquillizzava. Non ebbi paura, solo pace. Un giorno prima che morisse, la finestra lasciò l’impronta di una mano aperta che salutava e accanto l’iniziale del suo nome, G, come lui la scriveva. Io capii che era il suo addio e che di lì a poco sarebbe morto, ma ero sereno, così lui, così lui verso di me, e ciò mi tranquillizzava. Non ebbi paura, solo pace e pietà. Aspettavo questa notizia, ero sicuro che l’avrei saputo. Infatti il giorno dopo lui morì. Era malato.”

“È una storia molto triste” disse la contadina, e si alzò per toglier tavola.
“E del bastardo cosa si sa?” fece il contadino. Una sorda paura del luogo in cui viveva da dodici anni iniziò a venire fuori. Solo sensazioni, fino a quel momento. Improvvisi freddi, spifferi, silenzi.
“Il bimbo oggi avrebbe diciannove anni, ma nessuno lo ha mai visto. Credo sia morto sbranato da qualche lupo. Se permetti, ora vorrei riposare.” Il vecchio si alzò e andò nella stanza che gli avevano dato per la notte.

La donna tornò. “Che pensi?” chiese al marito.
“Che noi siamo polvere e non basteranno capre e vigneti a darci una morte serena, se non lasciamo questa casa disgraziata.” La donna annuì, baciò suo marito sul capo e si ritirò a dormire. Il contadino rimase a contare gli ettari, i capi, le vigne e pensò che sarebbe stato doloroso vendere tutto, ma che era necessario. E s’addormentò solo quando la candela finì. Era quasi l’alba del diciotto dicembre.

tratto da “Legenda”, Fara Editore 2009, diritti riservati

Un pensiero su “Giovanni – racconto di Natale

  1. Alla fine l’acquisto natalizio è stato il selected 1956-2007 di John Ashbery, tradotto da Abeni-Egan ed uscito per Sossella a maggio 2008: 300 pagine, 15 euro (ridotti a 10 alla mia Ubik per via del bonus maturato in precedenti acquisti) e piacevole lettura, questo Ashbery è abbastanza prosastico. Quasi finito di tradurre le mie 22 muldooniane, aspetto che Chiara mi faccia sapere se ha il via libera economico per farle uscire in Kolibris nella sua collana irlandese.

    Di Ashbery sono anche uscite 15 poesie sulla “PN Review” n.191, Jan-Feb 2010, della Carcanet qui a Manchester. Devo pero’ dire la verita’: questo poeta (i suoi toni, il suo spessore culturale, la sua possanza cognitiva, l’estetica sottesa) e’ molto lontano dalle mie corde. Mi sono annoiato a morte.

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